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A pedali tra deserti e ghiacciai

Il rientro a casa di Yanez Borella, protagonista di “Water Highway”

Viaggio Yanez Borella

14 agosto 2024

4 mesi di viaggio in bicicletta, 9.800 chilometri percorsi e 12 Paesi attraversati, 100 chili di equipaggiamento a traino e più di 50 forature.

La temperatura più alta? I 48 gradi registrati al lago d’Aral. Il punto più alto raggiunto: i 5.960 metri di una cima ancora inviolata (e quindi senza nome) del Karakorum, in Pakistan. Sono solo alcuni numeri dell’avventura “Water Highway” dell’esploratore trentino Yanez Borella. Partito dal MUSE lo scorso aprile, il ciclo-viaggiatore ha pedalato tra deserti, montagne e frontiere per documentare la crisi idrica e climatica globale. I giorni scorsi, dopo 118 giorni in sella, è rientrato a Fai della Paganella, dove vive e dove domenica 25 agosto alle 17, all’interno del Mountain Future Festival, racconterà per la prima volta il dietro le quinte di questo viaggio. Lo abbiamo chiamato per darci qualche anteprima.

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Cosa ti porti a casa da quest’avventura?

In questo viaggio ho incontrato tante famiglie e genti di montagna, con stili di vita e priorità molto diverse dalle nostre. Per noi tante cose sono scontate, l’acqua compresa. La vita nelle zone montuose che ho attraversato è più incerta: per raggiungere un ospedale ci vogliono anche 6 o 7 ore di viaggio, non c’è internet, ci sono continui blackout e si può rimanere anche per giorni senza elettricità. Per noi è così normale avere tutto e subito. Non saremo mai capaci di tornare indietro.

Cosa ti ha colpito di più?

In alcune zone del Pakistan e del Kirghizistan ho trovato un’accoglienza totale. La gente ti stupisce sempre: all’inizio hai sempre un po’ di pregiudizi e preoccupazioni, e invece la maggior parte delle volte si riceve molto più quello che si dà. Sono innamorato delle montagne e dei paesaggi himalayani, mi hanno aperto letteralmente il cuore; anche a livello psicologico, una volta raggiunto il Pakistan, sono cambiato. Qui, ho scalato anche una cima inviolata, a 5.960 metri di quota: forse le daranno il mio nome.

Le persone che hai incontrato si rendono conto della crisi climatica?

Alcune persone non se ne rendono conto, altre hanno la consapevolezza che qualcosa sta cambiando e cercano di preservare la natura e i luoghi in cui vivono. Anche se i ghiacciai himalayani, come il Gondogoro, sono ancora molto vasti, estendendosi anche per 60-70 km, gli abitanti di quelle zone mi hanno riferito che stanno cambiando tantissimo. La quota neve si è alzata e il ritiro è evidente. Ho incontrato culture e religioni che hanno ancora un rapporto molto genuino e rispettoso con l’acqua, questo fa ben sperare.

Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate?

In Cina, al confine, mi sono trovato completamente isolato: non funziona niente di ciò che è occidentale (schede SIM, carte di credito…). C’è un blocco generale, oltre che un continuo controllo: ad esempio, non puoi dormire dove vuoi né pagare in contanti. Ovunque ci sono presidi militari e non puoi neanche utilizzare liberamente la bici: è zona franca. E nessuno ti rivolge la parola.

A livello di permessi e visti è stata una vera odissea, c’è una burocrazia pazzesca, accentuata dai venti di guerra che stanno soffiando anche in quelle aree del pianeta: i Paesi che ho attraversato stanno adottando controlli molto più severi e molte più regole, anche per i turisti.

Quasi 10 mila km percorsi, bici e fisico hanno retto?

Ho fatto fatica a trovare i pezzi di ricambio della bici (un mezzo elettrico alimentato da un pannello solare, ndr): dovevo sperare di non bucare, soprattutto durante le traversate di deserti e steppe. Ho rotto una volta i pedali e la catena, e – tra bici e carretto – ho forato almeno una cinquantina di volte. In Georgia ho dovuto abbandonare il carretto a traino, barattandolo per pochi soldi e un po’ di cibo. La frontiera dell’Azerbaijan è interdetta a tutti i trasporti via terra; non avendo alcun documento del carretto (non omologato), nessuno mi ha permesso di portarlo con me. Mi sono rivolto all’ambasciata e ho cercato altre soluzioni, ma niente. Io ho preso un volo per superare il confine, l’equipaggiamento che avevo con me l’ho spedito in parte in Pakistan e un po’ a casa.

A livello di sicurezza, non ho avvertito particolari pericoli. A parte il traffico: ho rischiato più volte di essere investito nelle città più grandi. Anche il caldo è stato tosto da affrontare: nel deserto di Karakalpakstan, tra Kazakistan e Uzbekistan, ho percorso 450 km sotto il sole cocente. Il termometro ha raggiunto anche i 48 gradi. Per fortuna ogni tanto passava qualcuno che ti lasciava del latte di cammello o un po’ di acqua: la mia salvezza.

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Articolo di

Tommaso Gasperotti
Relazioni istituzionali e ufficio stampa
Ufficio stampa

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