18 marzo 2024
“Il tamburo è il mio cavallo” canta lo sciamano nella tradizione del popolo Evenchi, i campanelli che tintinnano sul suo costume ricordano il gorgoglio del torrente mentre le lunghe frange schioccano come rami agitati da un forte vento.
Sul suo capo, un palco di cervo si muove su e giù al ritmo della danza. Le spalle e le braccia sono ricoperte di lunghe penne scure, che vibrano come le remiganti di un rapace. I pendagli appesi alla veste si intrecciano e si sciolgono a ogni movimento: una testa di yak in legno, il guscio di una tartaruga, un brandello di pelle d’orso, una zanna di cinghiale.
Ogni oggetto presente nella mostra “Sciamani. Comunicare con l’invisibile” ha una storia da raccontare, ma tutte riconducono ai paesaggi della Siberia e della Mongolia: sconfinate steppe dai vasti orizzonti ondulati, fitti boschi odoranti di resina e muschio, profondi e scuri laghi, cavalli al galoppo, mandrie di yak e orsi solitari. Raccontare questi oggetti a migliaia di chilometri di distanza è qualcosa di difficile e rischioso, ancor di più se consideriamo che non provengono da un passato remoto, da un’epoca che possiamo solo tentare di ricostruire e immaginare, questi sono oggetti contemporanei, realizzati e utilizzati fino a oggi. Forse allora dobbiamo invertire la prospettiva: se non possiamo portare la steppa a Trento, lasciamo che siano questi oggetti a guidarci verso l’Asia centrale.
Durante le fasi di realizzazione del suo costume, lo sciamano sceglie elementi animali come penne, pelliccia, zampe, artigli e denti che non rappresentano solo dei semplici abbellimenti estetici, ma costituiscono dei veri e propri attributi che gli daranno capacità e poteri speciali durante il suo viaggio spirituale.
Il costume dello sciamano diventa un ricettacolo di significati che rispecchiano la percezione che queste comunità hanno degli animali, domestici e selvatici, con cui coesistono. Individuare queste specie diventa fondamentale per farci guidare da esse in questo viaggio nei “paesaggi sciamanici”. A tale scopo, alcuni reperti sono stati analizzati in modo macroscopico da zoologi esperti del MUSE e – da alcuni di essi – è stato estratto e sequenziato il DNA allo scopo di determinarne la specie. Le operazioni, svolte dai ricercatori della Fondazione Edmund Mach, restituiscono una biodiversità tipica di questi ambienti, fatta di animali domestici (capre, pecore, cavalli e yak) e animali selvatici come cervi, orsi, ghiottoni, corvi, avvoltoi e galli cedroni.
Ognuna di queste specie è, secondo le culture indigene di questi territori, depositaria di qualità spirituali peculiari, che lo sciamano ricerca andando così a fondersi, tramite il costume, con una dimensione animale che gli permette di superare i limiti del suo essere umano.
Ma il nostro viaggio ci conduce davvero in boschi, praterie e steppe? O è forse la nostra visione stereotipata che ci spinge a collocare gli sciamani in luoghi naturali maestosi e incontaminati?
Osservando questi oggetti senza pregiudizi vediamo emergere un paesaggio diverso, più articolato, più vero: assieme agli elementi animali, trovano spazio perline in plastica e bulloni usati come battacchi per le campanelle.
Forse allora questo viaggio non ci porterà dove ci saremmo aspettati, ma alla fine ci mostrerà una cultura che ancora oggi vive ridefinendo quotidianamente il suo rapporto con il mondo, sia moderno che naturale, mostrandoci modi diversi per metterli in comunicazione.
Articolo di
Elisabetta FlorCuratrice della mostra |
Luca ScozCuratore della mostra |